I sottoboschi dell’inconscio

 

 

 

 

Presentazione della mostra di Maxs Felinfer, I sottoboschi dell’inconscio, Monteprandone (AP)

Che siano sottoboschi nessuno avrà da dubitarne. Andarsi a vedere i quadri di Maxs è bello quasi come fare una gita in montagna; da pittore onesto e lavoratore, Maxs non ci nega il piacere della contemplazione. 

Poi si specifica che questi sottoboschi sono dell’inconscio. Con queste 42 opere Maxs s’è curato. E’ riuscito a lavorare la sua angoscia in modo da trasformarla in un codice, il codice dei sottoboschi dell’inconscio.

Ogni segno ha un ruolo preciso nell’economia psichica di ognuno dei sottoboschi, questa operazione assolutamente chirurgica, è tuttavia quanto di più libero un uomo può fare nella sua vita. E’ interessante notare come nella quasi totale obbedienza a delle regole, si può spaziare e controllare molto più di quello che si fa normalmente, si può davvero riuscire a volare. Ma sottomettendosi a delle regole, cioè primo non indietreggiare, Maxs va incontro a quello che vede anche se non può padroneggiarlo, non si ferma e decide, da pittore qual è, di non farsi divorare, di non farsi inghiottire dai propri fantasmi, ma di prenderli per la coda, cioè per il pennello.

Seconda regola: non andarci solo. Infatti Maxs ci va incontro armato di pennello, così lui lì non è mai in balia completa perché un sottobosco si compia il suo lavoro di pittore deve essere fatto, non c’è scampo. Il sottobosco non c’è se Maxs non lo crea.

Il viaggio è possibile perché la pittura interpone tra Maxs e il reale quella giusta distanza, che fa sì che possa continuare a vedere. 

Maxs ha potuto viaggiare lungo la follia, estraendone un codice dolce ed ecologico, i paesaggi sono rigati sporcati offuscati da righe che sono corde d’arpa o selvagge parate, alberi intervallati da sostanze bianche che colano come codici informatici. Come catene di significanti. Questo è l’inconscio, come sbarre limita la vista e il godimento, sempre impossibile o insoddisfacente. E là, dove le righe non ci sono più, ecco che appare la follia: un elemento fuori scala, un colore acido, miraggi e geometrie improbabili di fiori. Fino a dove ci si può spingere, fino a quando è possibile tornare indietro?

Maxs ha il suo pennello magico che non lo fa perdere e nell’ultimo quadro è doverosamente un tutt’uno con il resto, pixel colorati in allegra e furiosa fuga. Direi che quella è la posizione del soggetto: lo spazio vuoto tra un significante e l’altro. 

 

Annalisa Piergallini

 

 

 

Domenica, 03 Novembre 2013 09:53
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I disturbi dell'umore

di Anna Rosa Amati

Il sentimento di gioia, così come la tristezza sono parte integrante della condizione umana. Una linea di demarcazione netta tra umore normale e stato patologico non esiste, in quanto il tono affettivo investe tutta la vita psichica, modificandosi nello stesso soggetto in base alle situazioni esistenziali di volta in volta vissute. 

I disturbi dell’umore possono manifestarsi lungo un continuum che può andare dall’estremo della tristezza,  senso di vuoto, scoppi di pianto, perdita d’interesse per le attività quotidiane, insonnia o ipersonnia, mancanza d’energia, isolamento sociale, pensieri di morte, fino all’estremo opposto rappresentato da sentimento di grandiosità e onnipotenza, insensibilità alla stanchezza, fuga delle idee, eccessivo coinvolgimento in attività che possono avere conseguenze dannose (eccessi nel comprare, nel comportamento sessuale, ecc.). Quando le variazioni del tono dell’umore e la sua instabilità influenzano l’esistenza del soggetto in ogni sua componente,  influiscono sulla modalità di pensiero, sulle relazioni con gli altri e  diventano persistenti   sul versante della depressione o al contrario, su quello dell’esaltazione, si configura uno stato di malessere definito disturbo dell’umore.

La clinica psichiatrica, sotto tale denominatore comune, riunisce diversi quadri clinici che vanno dalla depressione alla mania, dal disturbo bipolare (alternanza di uno stato depressivo e di uno maniacale) alla ciclotimia, con una variabilità di manifestazioni cliniche intermedie i cui effetti, sia sul versante depressivo che maniacale, risultano meno eclatanti, come nella distimia e nell’episodio ipomaniacale.

Il trattamento  dei disturbi dell’umore attualmente  prevede l’intervento farmacologico, stabilizzatore del tono dell’umore, a volte abbinato ad una psicoterapia breve (cognitivo-comportamentale) con lo scopo di avere una remissione dei sintomi ed una modifica dei pensieri e convinzioni  negative del paziente  considerati come responsabili  nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi dell’umore.

Come si pone di fronte ai disturbi dell’umore la psicoanalisi in quanto clinica centrata sul soggetto?

La psicoanalisi rispetto alla psicologia moderna  inquadra diversamente l’instaurarsi e il trattamento dei disturbi dell’umore. Pone innanzitutto al centro del suo interesse l’unicità e la singolarità dell’individuo e quindi la particolare modalità di rapportarsi con gli eventi della realtà, eventi di vita  che possono divenire un crocevia fondamentale per aprire la porta al sintomo sia sul versante della perdita che su quello della riparazione maniacale.

L’ascolto della sofferenza, il supporto di un contenimento di parola intervengono lì dove il rapporto con la propria realtà psichica diviene intollerabile.

La clinica freudiana ci insegna che il soggetto reagisce alla perdita, reale o immaginaria, con il lutto che ha i suoi tempi di elaborazione. Là dove l’investimento libidico verso se stesso e il mondo circostante  fallisce, oppure oltrepassa i limiti della conseguente ricostituzione della rete di affetti, la difficoltà del soggetto di autoregolarsi nel suo rapporto con il piacere e con la soddisfazione, per eccesso o mancanza, può trovare adeguato trattamento e possibilità di liberazione in un luogo di parola, orientato dall’etica della psicoanalisi, anziché in quello dell’atto che può sfociare sia in direzione depressiva che in direzione maniacale.

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Domenica, 08 Settembre 2013 08:17
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La psicoanalisi e le difficoltà dell’anziano

Di Maria Rita Conrado e  Ezio De Francesco

 

Occorre opporsi all’equazione di Terenzio senectus ipsa morbus, cioè che la vecchiaia sia sinonimo di malattia. E’ indubbiamente vero che l’individuo che affronta quel ciclo di vita chiamato terza o quarta età va incontro ad alcune difficoltà che possono colpire aree diverse del suo funzionamento cognitivo e affettivo, con evidenti risvolti anche a livello familiare e sociale. Ma questa perdita di funzionalità, sia essa fisiologica o patologica, può essere attivamente contrastata  fornendo, attraverso un approccio psicologico, la possibilità di rielaborare il proprio percorso di vita in funzione di un riconoscimento di quello che è il  desiderio inteso come spinta propulsiva e creativa che ha animato e può ancora animare l’esistenza.

Ciò di cui ogni individuo ha fondamentalmente bisogno, qualunque sia l’età, è di essere riconosciuto dall’Altro che assume facce diverse nelle varie fasi dell’arco della vita: famiglia, scuola, società. Sappiamo dalla psicodinamica che l’inconscio ignora la vecchiaia e che l’anziano giunge in genere a sentirsi tale attraverso l’immagine di sé che gli altri gli rimandano, e che ad essa può reagire con sorpresa, scandalo e incredulità, come ci ricorda Simone de Beauvoir. A un livello più profondo ciò a cui va incontro è una vera e propria ferita narcisistica e le strategie adottate per lenirla possono variare dalla negazione all’iperattivismo, dalla reazione aggressiva così come a quella depressiva. E’ in questi casi che un intervento psicologico può svolgere importanti funzioni: di sostegno, di contrasto alla deriva depressiva, di elaborazione e di stimolo cognitivo e relazionale.

Indichiamo in modo sintetico alcune aree di intervento psicologico con la terza e quarta età:

Il deterioramento cognitivo è un fenomeno psicopatologico tipico dell’invecchiamento, sappiamo che accanto al deterioramento senile fisiologico ce n’è un altro che copre uno spettro che va dalla demenza vascolare a quella determinata dall’Alzheimer.

L’ansia, sia essa di stato che di tratto, che in genere nel paziente anziano tende a peggiorare, spostandosi verso la preoccupazione ipocondriaca anche se non va dimenticato che può essere legata a reali fatti organici, come l’ipoglicemia o malattie cardiovascolari.

La depressione. Rispetto a tale area occorre fare delle differenziazioni perché nell’anziano la depressione può presentarsi sia con i tratti della tristezza e dell’autosvalutazione, sia associata a episodi di agitazione psicomotoria e di irritabilità. Altre volte può essere mascherata da sintomi somatici o da altri disturbi psicopatologici come fobie o ossessioni.

Il deterioramento della capacità di legame sociale causata da una tendenza al disinvestimento relazionale ma anche da condizioni di dipendenza o di non autosufficienza.

Al fine di fornire un intervento specialistico per questa fascia di età alcuni C.Ps.A. di Roma hanno attivato il Servizio Psicologico Domiciliare per l’Anziano (SPDA), descritto nella sezione “ATTIVITA’” di questo sito. I Consultori di Psicoanalisi Applicata che erogano questo servizio sono il C.Ps.A. “San Giovanni” (334-8507450) e il “Centro Alios” di Ostia (334-2776522).

 

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Mercoledì, 19 Giugno 2013 02:55
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Gli attacchi di panico

di Paola D'Amelio

Per Attacco di panico s’intende un episodio di angoscia acuta in assenza di un pericolo reale, dove alcuni disturbi vegetativi si sviluppano improvvisamente raggiungendo un picco nel giro di pochi minuti: palpitazioni, sudorazione, tremori, soffocamento. Accanto ad un’intensa paura di perdere il controllo, di impazzire o di morire, fino al vissuto d’irrealtà e distacco da sé. Un senso di pericolo e di catastrofe imminente, come anche l’urgenza di allontanarsi, ne precedono o accompagnano lo scatenamento. Una volta verificatosi, un Attacco di panico lascia il timore di una successiva insorgenza: di qui la cura con cui il soggetto evita le condizioni  che possano permetterne il ripresentarsi.

L’Attacco di panico è classificato dalla medicina psichiatrica tra i Disturbi d’Ansia. Nello specifico si parla di Disturbo di Panico quando gli episodi sono ricorrenti. La Psichiatria e la Psicoterapia contemporanea suggeriscono come terapia dell’Attacco di panico il trattamento farmacologico (ansiolitici e antidepressivi), accompagnato da colloqui psicoterapeutici. Esse ritengono l’Attacco di panico come strettamente legato al sopravvenire di eventi esistenziali stressanti, in particolare perdite, su un soggetto emotivamente fragile. L’intento terapeutico diviene di conseguenza quello di rafforzare l’Io del soggetto e nel contempo neutralizzare l’angoscia, eliminarla in quanto intrusa, attraverso l’applicazione di tecniche psicologiche precise.   

Per la Psicoanalisi ad orientamento freudiano e lacaniano, l’angoscia che caratterizza l’episodio di panico è un fenomeno che non permette di per sé di fare diagnosi, non si può definirla un sintomo, piuttosto un affetto. L’angoscia non è legata a un contenuto particolare, a differenza della paura, che è sempre paura di qualcosa o di qualcuno. Lacan precisava però che: “L’angoscia non è senza oggetto”. Quale oggetto dunque? Si tratta di ciò che incarna un punto di verità personale di cui il soggetto non sa, di cui è all’oscuro e che gli risulta inafferrabile, sebbene estremamente intimo. Ancora Lacan nel suo “Seminario X. L’angoscia”, definirà l’angoscia come “..ciò che non trae in inganno”. Essa si rivela dunque in grado di puntare proprio al suddetto punto centrale, nodale dell’essere. Divenendone quindi la via regia di accesso. Il trattamento dell’attacco di panico, non sarà dunque volto a neutralizzare l’angoscia, piuttosto a puntare, proprio per il suo tramite, alla verità intima del soggetto attraverso un lavoro di articolazione della parola, così come si viene a dispiegare nella relazione di transfert con il terapeuta.

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Martedì, 02 Luglio 2013 04:07
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Il borderline

Di Monica Vacca

 

 

La civiltà contemporanea è una civiltà borderline, al limite. Limiti sempre più sfumati ed evanescenti. Il tramonto dell’autorità, la caduta degli ideali fanno sorgere l’imperativo godi e consuma. La nuova geografia, il nuovo assetto sociale, la comunità virtuale e il suo tempo hanno determinato non solo una dispersione delle identità, ma anche un disorientamento sociale. I sintomi sono figli del tempo. Entro questa cornice si delineano le così dette “nuove forme” del sintomo: disturbi alimentari, dipendenze, attacchi di panico, ecc.

Incontriamo soggetti “senza bussola”, precari nel lavoro e nelle relazioni interpersonali, disorientati, disillusi, disperati, triturati dalla macchina della performance e dell’efficienza.

Il disagio dilaga. Un senso di vuoto misto a fallimento e un sentimento depressivo con uno sfondo di rabbia si mostrano in forme di malessere dai contorni labili, indefiniti.

 Una sofferenza nel corpo e nel pensiero priva di dialettica mette in evidenza una certa difficoltà dei soggetti ad accedere al proprio desiderio. Il godimento autistico sganciato dall’inconscio è refrattario sia all’interpretazione che al senso.

Nell’epoca della comunicazione generalizzata la parola perde consistenza e lascia il posto all’acting-out e al passaggio all’atto. Le domande di cura sono vaghe o assenti. Le nuove forme del sintomo pongono serie difficoltà nella diagnosi e nel trattamento, mettono in scacco i clinici, li interrogano.

Il borderline è definito come una classe, in cui si classificano gli inclassificabili, classe definita soprattutto a partire da quanto vi è escluso: non si tratta di psicosi, non si tratta di nevrosi. Al contrario Jacques Lacan, fa un ritorno a Freud e reperisce tre possibili scelte del soggetto dell’inconscio, e cioè: nevrosi,  psicosi e perversione.  Non esiste dunque per Lacan un soggetto borderline, inteso evidentemente nel senso preciso di soggetto dell’inconscio. Tuttavia mentre possiamo dire che non c’è, per Lacan, un soggetto borderline, possiamo invece dire che ogni essere parlante è un borderline, borderline rispetto alle due valenze del sintomo: sempre alla frontiera tra il suo farsi rappresentare come soggetto dell’inconscio, da un significante per un altro significante e, dall’altra parte, sempre attirato irresistibilmente verso il reale del godimento, quella sofferenza a cui la ripetizione del sintomo conduce e a cui sembra tanto difficile rinunciare. Ciò ha delle conseguenze per il trattamento. La diagnosi psichiatrica è fenomenologica, si fonda sull’osservazione del sintomo, la diagnosi psicoanalitica invece è strutturale, si formula a partire dalla posizione che il soggetto occupa nel discorso, vale a dire che nella nevrosi e nella psicosi il rapporto che il soggetto ha con l’Altro e con il godimento è strutturato in modo diverso. In caso di nevrosi la direzione della cura mira alla rettifica soggettiva, vale a dire isolare il punto opaco del godimento, ciò che spinge il soggetto alla ripetizione. In caso di psicosi, invece il trattamento punta alla “rettifica dell’Altro”, in altre parole si tratta di rendere il mondo meno persecutorio e di ripristinare un nuovo legame sociale.

 

Monica Vacca

 

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Lunedì, 10 Giugno 2013 04:03
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