Dipendenze

di Ezio De Francesco 

un “male che piace”. É così che qualcuno, dopo molti anni di dipendenza dalle sostanze, avendo nel frattempo raccolto gli effetti di tale perseveranza, ha formulato una sua lapidaria definizione della dipendenza dalla droga. Oppure, “un orgasmo che dura un’ora e mezza”, diceva qualcun altro dell’assistere ad una corsa di cavalli con la propria scommessa in mano. Due definizioni in presa diretta con il proprio vissuto, sempre a portata di mano ma che, ad un certo punto, sono risuonate dissonanti. Qualcosa non tornava: una contraddizione in termini. 

In effetti, dal lato dell’interrogazione psicoanalitica, già Freud rilevava come l’”intossicazione”, il rapporto di dipendenza da una sostanza, avesse in sé qualcosa di particolare rispetto a tutti quei sintomi in risposta ai quali aveva inventato il dispositivo analitico. E usava espressioni come l’“armonia più perfetta”, il “matrimonio felice” per rendere conto del rapporto dell’alcoolista con la bottiglia. Tali sottolineature infatti non puntano l’attenzione sulla sofferenza soggettiva. E questo nonostante l’evidenza della devastazione in gioco nelle diverse forme della dipendenza.

Da quelle classiche, che riguardano il consumo di sostanze, a quelle che hanno come oggetto il gioco d’azzardo, oppure lo shopping compulsivo, fino alle più attuali come la dipendenza dai social-network e, più in generale da internet, sappiamo ormai che la devastazione può condurre fino alla morte, evidentemente non solo per il cedere del corpo agli eccessi. La prospettiva freudiana, dunque, permette di mettere in rilievo un punto centrale nelle condotte di dipendenza, che attraversa le sue mutevoli forme, sempre più aggiornate: una soddisfazione che oscura tutto il resto, che non permette al soggetto di guardare più in là, per prendere in conto le conseguenze del proprio atto, non ultimo quelle penali. Conseguenze sicuramente ben conosciute, ma che al tempo stesso non fungono da limite, che non portano, almeno fino a un certo momento, a mettere realmente in questione tale pratica e ad articolare una effettiva domanda di aiuto. 

Quello del soggetto dipendente, quindi, è un sapere non operativo. Spesso, allora, è l’altro a farsene carico, l’Altro della legge, del sociale, l’Altro familiare. Qui trova tutta la sua consistenza la categoria di “godimento” di Lacan - che riprende quella freudiana di pulsione di morte - e che non coincide con quella di piacere. Non è raro infatti che l’assunzione di sostanze, così come il giocare compulsivamente d’azzardo, o cedere allo shopping sfrenato o l’essere “connessi” a ciclo continuo sia dell’ordine del palese malessere anche a livello del vissuto e non solo delle conseguenze. Ma non per questo perde la sua forza attrattiva, mostrando in tal modo come tale pratica non si regoli sul registro del binomio piacere/dispiacere, sempre incerto da definire per ogni soggetto, ma su quello di un godimento devastante che si impone. 

Quale possibilità per la parola, dunque, in tutto questo? Al di là di ogni presa di posizione a priori, il punto di partenza non può che rimanere quanto la clinica stessa delle dipendenze testimonia. Vale a dire che, a un certo punto, arriva il momento in cui “non va più come prima”. L’orrore del prezzo pagato nella propria esistenza, la colpa per il dolore causato a coloro che stanno vicino, la vergogna per le menzogne… tutto questo, lì da sempre, diventa insopportabilmente vivo, attuale, bruciante, insistente. Ed è proprio qui, dove qualcosa insiste, che l’esperienza psicoanalitica chiama in causa il suo registro specifico: quello dell’inconscio, aprendo, per il soggetto, la possibilità di interrogare la condotta dipendente, rivelando la verità soggettiva che la sostiene e aprendo la strada alla sua risoluzione.

( Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Consultori di Psicoanalisi Applicata (C.ps.A). C.F. 07683051002